martedì 11 gennaio 2011

Il Neorealismo


Neorealismo
1. Caratteristiche, precursori, prodromi
Il movimento noto come neorealismo fa la propria comparsa in Italia intorno alla seconda guerra mondiale: sua principale caratteristica è quella di rappresentare la quotidianità nel suo farsi, adottando un taglio tra il reale ed il documentario e servendosi sovente di individui presi dalla strada in luogo di attori professionisti. La scarsità di mezzi, la indisponibilità di teatri di posa dopo il 1944 figlia l'obbligo di girare nelle strade, di ambientare i lungometraggi nei luoghi autentici: ciò diviene una sorta di cifra stilistica del neorealismo, che attinge una inusitata misura di verità da codeste apparenti limitazioni.
Altri tratti salienti sono rinvenibili in uno spostamento d'accento dal singolo alla collettività, nella palese predilezione per una narrazione di tipo corale; ultima, ma non per importanza, è la valenza di lucida analisi dei dolorosi scenari evocati, di aperta critica verso la crudeltà o l'indifferenza dell'autorità costituita.
L'accezione di "nuovo" realismo si origina dalla necessità di sottolineare il carattere invero inedito della corrente: ché mere connotazioni realistiche avevano già talune pellicole nostrane nel periodo del muto - "Sperduti nel buio" (1914) di Nino Martoglio e "Assunta Spina" (1915) di Gustavo Serena, per fare degli esempi - mentre certe opere di
Blasetti (pensiamo soprattutto a "Terra madre" ed a "1860", rispettivamente del 1931 e del 1934) ambivano a dare del paese un'idea meno paludata ed astratta di quanto preteso dal regime.
Se l'elaborazione teorica del movimento trova nelle riviste "Cinema" (nata nel'36, dal '38 diretta da Vittorio Mussolini) e "Bianco e nero" (apparsa nel '37, curata per quasi 15 anni da Luigi Chiarini) insperati luoghi d'elezione, i segnali d'un mutamento imminente si coagulano di contro in titoli quali "Quattro passi fra le nuvole" (1942) di Alessandro Blasetti e "I bambini ci guardano" (1943) di
Vittorio De Sica. Una ragazza madre, una moglie adultera, un marito suicida ne sono protagonisti, dissolvendo la plumbea, forzosa cappa di decoro e di perbenismo propria della cinematografia del ventennio.
A rompere ancor più recisamente gli indugi, ci pensa
Luchino Visconti con "Ossessione" (1943), torrida trasposizione sulle rive del Po de "Il postino suona sempre due volte" di James M.Cain: irrompe qui, finalmente, sugli schermi, un'Italia vera, abitata dalla miseria e dalla disoccupazione, vessata da una polizia occhiuta e persecutoria. Passione, tradimento, morte scandiscono una storia raccontata senza infingimenti o timori: la censura s'impenna ancora una  volta, ed il film conosce - segnatamente nell'Italia del nord - problemi di circolazione. Ma la strada per una svolta epocale, oramai, è stata aperta.
2 L'influenza di Zavattini
Prima di addentrarci ulteriormente nell’argomento di codesta trattazione, ci pare doveroso far cenno alla figura di Cesare Zavattini (Luzzara, RE, 1902 - Roma 1989), importante nella vicenda del cinema italiano in generale ed assolutamente fondamentale nell’avventura neorealistica. Se già nel 1935, sulle colonne della rivista "L’Italiano", Leo Longanesi aveva affermato:  "bisogna scendere nelle strade, nelle caserme, nelle stazioni: solo così potrà nascere un cinema all’italiana", è però il Nostro ad inscrivere codesta intenzione in una sorta di manifesto teorico, via via precisatosi nel corso del tempo.
La concezione del neorealismo trova infatti la propria ragion d’essere nella cosiddetta teoria zavattiniana del pedinamento, consistente nella registrazione del quotidiano al seguito di personaggi scelti fra la gente comune: la macchina da presa si pone al servizio del reale e lo filma, facendo sì che gli eventi giornalieri finiscano per trasformarsi in una storia.
Detta attitudine s’appalesa già nella prima sceneggiatura di Zavattini, quella concepita per "Darò un milione" (1935) di
Mario Camerini: pur all’interno di una struttura favolistica, infatti, l’attenzione all’universo degli umili ed all’autenticità dei sentimenti fan la differenza rispetto alle tematiche di regime.
Successivamente, il discorso si precisa ulteriormente in diversi soggetti, da "Avanti c’è posto..." (1942) di Mario Bonnard a "Quattro passi fra le nuvole" (1943) di
Alessandro Blasetti, da "I bambini ci guardano" (1943) a "La porta del cielo" (1945): diretti entrambi, questi ultimi, da quel Vittorio De Sica con il quale s’instaurerà una feconda collaborazione, pronuba di alcuni capi d’opera dei quali parleremo più avanti.
Sovente autore dei film che sceneggiava assai più dei registi chiamati di volta in volta a dirigerli, Cesare Zavattini rimane personaggio unico ed irripetibile della nostra cinematografia: battagliero e generoso, egli s’impegnò costantemente in un lavoro di ricerca che produsse benefici effetti su autori e opere di tante generazioni e periodi. La sua sincerità dirompente, il suo coraggio intellettuale molto ci mancano ancor oggi, a quasi tre lustri dalla sua scomparsa.
3. Le opere e gli autori
L'atto di nascita ufficiale del neorealismo può dirsi costituito dall'uscita di "Roma città aperta", girato in condizioni di fortuna (ad esempio, servendosi di pellicola muta e sovente scaduta) tra il '44 e il '45 da Roberto Rossellini. L'esperienza dolorosa della guerra, il trauma dell'occupazione, l'afflato resistenziale trovano qui efficace rappresentazione, pur se a volte in chiave populistico-melodrammatica: l'impatto è comunque enorme, e apre la strada a tutte le grandi opere del triennio successivo.
In "
Sciuscià" (1946), Vittorio De Sica indaga i disastri provocati dall'esperienza bellica nell'animo dei più deboli, i fanciulli del proletariato; in "Paisà" (1946), ancora Rossellini dà vita - in sei episodi di guerra e di resistenza - ad una sorta di affresco stilisticamente nervoso e frammentato sull'Italia sconvolta del '44; mentre in "Caccia tragica" (1947) Giuseppe De Santis si serve di moduli spettacolari e romanzeschi per ambientare nella bassa padana una movimentata vicenda di banditi e contadini, attraversata da un soffio epico-hollywoodiano.
Dipoi, mentre Rossellini esce dai confini patri per raccontare in "
Germania anno zero" (1948) la deriva morale di un paese che si esplicita nel suicidio di un bimbo, De Sica offre con "Ladri di biciclette" (1948) - attraverso le peripezie d'un uomo qualunque, che non si rassegna alla disoccupazione forzosa - l'attendibile ritratto d'una nazione sospesa fra speranze e frustrazioni; laddove Visconti rilegge con maestria ed aggiorna in chiave marxista "I Malavoglia" del Verga nel mirabile "La terra trema" (1948) e De Santis persegue con il celeberrimo "Riso amaro" (1949) una sua personale via al cinema popolar-realistico, portando alle conseguenze ultime certe intuizioni gramsciane nel mescolare valenze sociali e gusto del melò, istanze progressiste ed esplosiva carnalità.
Frattanto, la Storia fa il suo corso: le elezioni del '48 segnano la netta sconfitta delle sinistre, ricacciate all'opposizione dopo la parentesi post-resistenziale. Il clima culturale, di conserva, prende a mutare: inizia così il lento, ma inesorabile declino dell'esperienza neorealistica, che produrrà ancora un'estrema fioritura prima di avvizzire.
4. Gli ultimi fuochi
Instauratosi un governo moderato di impronta filostatunitense, la rottura della solidarietà postbellica diviene definitiva: mentre il grande capitale torna ad affermarsi, venti di conservazione spirano vigorosi sul paese. La politica culturale tende verso un ottimismo di facciata, l'esposizione dei dolori e delle miserie d'un popolo vinto inizia ad esser vista con fastidio dal potere.
Lo scopre a suo spese Vittorio De Sica che - già al centro di polemiche per le sue opere - viene attaccato per il magnifico "Umberto D." (1952), lucida e rigorosa descrizione della miserrima solitudine d'un pensionato: l'accusa è quella di presentare un quadro troppo impietoso della vita quotidiana, s'invoca a gran voce un raggio di sole da parte di giovani politici democristiani destinati a fare carriera.
Esortazioni superflue, ché già i cineasti avvertono la struttura neorealistica come una camicia di Nesso e s'indirizzano ad altre esperienze: il citato De Sica, ad esempio, principia una carriera internazionale fortunata negli esiti commerciali e discontinua in quelli artistici, in ogni caso inferiori a quelli d'un tempo.
Più complesso il percorso seguito da Luchino Visconti: dopo "Bellissima" (1951), epitome del neorealismo e nel contempo suo superamento critico, in "Senso" (1954) egli s'avvia verso un realismo borghese detto nei toni del melodramma, firmando un lavoro magistrale ma ormai lontano dai moduli espressivi della precedente trilogia.
Quanto a Rossellini, il suo tragitto è il meno facilmente classificabile: con "Stromboli - Terra di Dio" (1950), "Europa '51" (1952), "Viaggio in Italia" (1953) egli pare spostarsi nel terreno d'un fideismo pessimistico, assai lontano dalla fiducia nella Storia o da istanze progressiste; mentre Giuseppe De Santis sigla con "Roma, ore 11" (1952) la sua migliore riuscita, con un ritratto corale al femminile di forte risalto sociale e politico.
A questo punto, il neorealismo può dirsi esaurito: la sua lezione si rivelerà preziosa pel nostro cinema, che raramente - forse solo nei primi anni '60 - riuscirà di nuovo a creare una simile rispondenza con le trasformazioni sociali in atto.
Tratto da  http://www.italica.rai.it/cinema/schede/neorealismo4.htm

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